4 ottobre 2010

eddie

milano. dicembre. l’anno ormai mi è sconosciuto...

-ha una coincidenza?
-no, sto cercando una persona
-beh dovrebbe essere lei a farsi cercare: è lei che arriva. 
-dipende 
-non è sceso dal treno in questo momento, scusi?
-sono sicuro che ha ragione. mi scusi, la prego. questo è il mio treno...

il freddo è un cane rabbioso che morde le ossa. l’aria un livido di un profondo blu, come un occhio il mattino dopo una rissa da ubriachi. il cielo non aiuta. non aiuta mai. mi passo le dita sul naso; l’odore della nicotina tra l’indice e il medio: castagne sul fuoco. a ondate regolari le banchine s’affollano di gente, poi si svuotano, tornano a riempirsi. viaggiatori storditi di sonno e di freddo, pendolari, fuggitivi, innamorati... i grandi orologi a lancette incombono mostruosi con la loro legge sull’imponente interno della stazione, che pare quasi respirare. bene, è quasi ora. la gente intanto arriva da ogni dove. spinge, corre, trotterella nervosa, gesticola, parla affettata al telefono. c’è chi s’affanna, chi prega, chi dorme, chi vaga nel suo mondo immaginario e non si cura di chi lo prende a spallate, di chi gli passa le valigie sui piedi. tutti sicuri del loro viaggio, del percorso e  dell’arrivo, di chi ci sarà ad aspettarli. di chi si lasciano scorrere via al di fuori dal finestrino nel momento in cui partono; quando senti fortissima, sulla corda tesa di quell’ultimo sguardo, la sensazione di un filo che si tende, resiste e poi si spezza. c’è un rinculo nel petto, un buco che si apre e si fa sempre più grande, facendoti sprofondare. a quel punto gli occhi si ribellano, si flettono all’indietro e poi sbattono con forza sul paesaggio in movimento, nell’istante preciso in cui il treno arriva a velocità di crociera. poi c’è solo pianura. i limiti, i bordi e gli spigoli. un tipo chiede da accendere. i miei occhi fissi sulle sue mani. bisogna ammazzare il tempo. la meta conta più del viaggio. non per me. la meta è un punto morto. è solo un’attesa prima di ripartire. avverto un leggero capogiro. gli speaker snocciolano sermoni di orari, arrivi, partenze, ritardi, binari e conferme di binari, variazioni di orari, binari, ritardi. mi sfrego le dita sugli occhi. mi abbandono sul sedile. il panorama scivola via sopra il mio riflesso. l’odore pungente del vagone. e poi ci sono quei grandi archi sporchi, così fottutamente liberty. l’ho vista ora che scendeva. l'ho vista e ora non mi sembra lei. ora mi pare che salga su un altro treno... con un sorriso appena abbozzato, tronco la conversazione mentre le porte del treno si aprono. balzo sul predellino. neanche un bagaglio con me. m'infilo nello scompartimento senza registrare neanche uno sguardo degli altri passeggeri. c'è un posto vuoto accanto al vetro. nessuno sguardo puntato addosso. bene. adesso sono io a guardare questi corpi anonimi in preda all'affanno, buffi a loro modo. senza senso. ora c'è una ragazza che passa, dentro la sua nuvola di pensieri e di bellezza. abbraccia un ragazzo. lo bacia forte. il treno si mette a vibrare. è il segnale. il capotreno fischia a pieni polmoni. la ragazza lancia un ultimo bacio con la mano prima di sparire sul treno. il ragazzo alza la mano in un saluto trattenuto. dietro di lui, lei  arriva trafelata. i suoi occhi attraverso il vetro sporco. in quel momento il treno parte. non può essere. non poteva essere lei. forse lo era. forse era lei e non l’ho riconosciuta. lo sguardo di lei ancora sulla schiena. ancora per un momento. interminabile. inverosimile. e poi quella cosa che si tende all’indietro. e poi quella fottuta voglia di piangere. e poi c'è solo il piano padano a consolarlo. e la prossima stazione. 

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